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La giornalista newyorchese Elizabeth Cline un giorno del 2009 decide di compiere un gesto all’apparenza banale, ma che le cambierà la vita: apre il suo armadio e, spulciando tra le etichette, cerca di capire da dove arrivano i suoi vestiti.

L’analisi dei suoi capi d’abbigliamento porterà la Cline ad affrontare un’inchiesta in giro per USA, Cina e Bangladesh, che diventerà nel 2012 il libro Overdressed, uscito quest’anno per Piemme con il titolo Siete pazzi a indossarlo! Perché la moda a basso costo avvelena noi e il pianeta.

 

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Dei 354 capi di abbigliamento che possiede, da buona americana accumulatrice, gran parte sono di poliestere. Vale a dire, di plastica (lei, che sta attenta a limitare il consumo di plastica negli alimenti, se la trova nell’armadio!). La maggior parte non li indossa nemmeno, e tutti vengono dalle fabbriche di Cina, Bangladesh e India.

Dove li ha comprati?

Nei negozi dei retailer a basso costo che imperversano nel suo paese, come H&M, Zara, Target e Forever 21. I retailer, infatti, si limitano a disegnare e vendere i vestiti, ma non sono loro che li producono. Eppure fino a pochi decenni prima i capi venivano prodotti nelle fabbriche degli States (nel suo caso, ma ancor di più nella nostra Italia, famosa per la moda), l’America comprava i vestiti nei grandi magazzini all’ingrosso e tutti si vestivano con tessuti migliori e capi prodotti in poche copie.

 

Siete pazzi a indossarlo! Perché la moda a basso costo avvelena noi e il pianeta

Siete pazzi a indossarlo! Perché la moda a basso costo avvelena noi e il pianeta – foto di Manuela Ortis

 

Cos’è successo negli ultimi trent’anni?

La giornalista capisce che qualcosa non va nella società odierna, quando si accorge della smania e del desiderio impulsivo con cui rispondiamo ai saldi. Di fronte a uno sconto, si impadronisce senza pensarci due volte di 7 paia di scarpe a 7€, e solo quando arriva a casa si rende conto che in realtà non le piacciono granché, e di certo tutte non le avrebbe mai indossate.

Le cause che hanno portato a quella che ora si definisce fast fashion, il consumo di grandi quantità di vestiti a pochi soldi e che usiamo poche volte, si devono cercare nella grossa battaglia al ribasso che ha visto scontrarsi le aziende d’abbigliamento negli ultimi decenni. In un tutti contro tutti a chi riusciva ad avere la meglio, tagliando prezzi e diminuendo sempre più la qualità, solo alcuni sono sopravvissuti. Chi ce l’ha fatta, per rimanere competitivo, ha poi spostato la produzione all’estero. Ecco così che in Bangladesh la paga oraria per un sarto in una fabbrica è di 21 centesimi di dollaro. Ecco che il disastro del 24 aprile 2013 nella capitale Dacca, quando una fabbrica di otto piani è crollata uccidendo almeno 1.129 lavoratori, non si può considerare un evento imprevedibile, perché le spie d’allarme c’erano ovunque.

 

 

Ma la colpa non è solo delle marche, è soprattutto nostra, del consumatore. Negli anni, ci siamo dimenticati di quanto dovrebbero valere i vestiti. Per i nostri nonni vestirsi era un investimento: chi non poteva comprarsi un bell’abito che avrebbe usato per tutta la vita, comprava stoffe e tessuti e se lo cuciva da sola. Il mestiere della sarta era uno dei più diffusi e ben considerati, mentre ora la manodopera estera ha delle paghe da fame. Abbiamo sacrificato la qualità e il piacere di costruirci o meritarci un vestito perché così possiamo comprarne uno di nylon e poliestere, che costa 19,90€, simile a un altro che abbiamo già.

Eppure le cuciture degli abiti non reggono, il tessuto fa i pallini dopo pochi lavaggi, il colore finisce nello scarico della lavatrice.

Anche il mondo dell’alta moda non se l’è cavata meglio, gonfiando i prezzi e talvolta non garantendo una grande qualità. Fibre sintetiche vengono miscelate assieme al cotone e alla lana, per risparmiare, e i tessuti si fanno più sottili e meno resistenti.

 

 

Questa era la situazione che la Cline ci descriveva nel 2012. Ora, sei anni dopo, le cose non sono radicalmente diverse, ma per fortuna stanno cambiando: i negozi di H&M, ad esempio, offrono un ritiro degli abiti usati per impedire che finiscano nelle discariche (perché i vestiti, anche quelli dati in beneficenza, se sono strappati e macchiati senza rimedio e fatti di un cattivo tessuto non vengono rivenduti né riciclati). Puma ha sviluppato una linea di scarpe e abbigliamento biodegradabili o riciclabili. L’industria della moda, in risposta a un rapporto di Greenpeace, sta cercando di limitare l’impatto sull’ambiente, impegnandosi a ripulire le proprie filiere da prodotti chimici pericolosi entro il 2020.

Alcune fabbriche stanno rientrando in patria, complice anche l’aumento del costo della manodopera cinese. Su internet stanno aprendo molti brand che dell’etica e della qualità fanno il proprio vessillo, e che possono evitare il rincaro che ci sarebbe sulla vendita al dettaglio in negozio.

 

 

Anche a Udine esistono dal 2015 esempi virtuosi di negozi d’abbigliamento fatti con fibre biologiche, che mettono al primo posto la qualità e il rispetto per l’ambiente.

Una slow fashion si sta lentamente diffondendo e sta prendendo piede, cercando di risvegliare nelle persone il senso del vestirsi bene e del comprare solo quando necessario, la capacità di distinguere tra una cosa fatta bene e una fatta male, e il piacere di prendersi cura dei propri vestiti.

Chiediamoci: quanto indosso di ciò che già possiedo? Se è solo una piccola percentuale, proviamo a creare dei nuovi abbinamenti, rovistiamo in fondo all’armadio (si trova sempre qualcosa di dimenticato!), riscopriamo la creatività e lo stile di ognuno di noi.

 

 

Articolo di Manuela Ortis