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KEDI – La città dei gatti
Ceyda Torun, 2017

C’è una citazione dello scrittore inglese Neil Gaiman che recita: “A town isn’t a town without a bookstore”, suggerendo che parte dell’anima di una città è costituita dalla cultura e dallo spazio che le viene dato. Un film-documentario uscito nel 2017 e girato a Istanbul, la capitale turca, ci suggerisce che forse anche una città senza gatti non è una città, o perlomeno è una città senz’anima.

In “Kedi. La città dei gatti” (kedi in turco significa “gatto”), la regista Ceyda Torun ci mostra una Istanbul pattugliata da gatti per così dire randagi, anche se la parola giusta potrebbe essere liberi. Molti non hanno casa, altri vivono con l’uomo ma conservano parte della loro libertà, ed è di questi ultimi che si parla. Uno dopo l’altro, ci vengono presentati i protagonisti a quattro zampe, ognuno con il suo carattere, il suo colore, la sua storia. Conosciamo così un gatto che caccia i topi vicino ad un ristorante, uno che si diverte tra le bancarelle di un mercato, un altro ancora che si apposta sulla panca esterna di un Caffè e che quando ha fame gratta con la zampa ma non entra, nemmeno con la porta aperta. C’è una gatta gelosa del suo compagno, che soffia a chiunque gli si avvicini, un’altra che va in giro a scroccare del cibo a chiunque, per portarlo ai suoi piccoli.
Sono però le persone a introdurli, quelle che si sono occupate e si occupano di loro, quelle che li hanno visti arrivare o che se li sono trovati lì da un giorno all’altro, che condividono con loro parte della propria giornata e delle proprie abitudini.

 

 

Dai toni meditativi, il documentario ci mostra delle prospettive insolite di quella che un tempo fu Costantinopoli, ex capitale di molti imperi, ora città multietnica che conta 15 milioni di abitanti (per un confronto, Roma ne ha quasi 3 milioni). Istanbul è un luogo di confine e transizione, che occupa una posizione particolare nel mappamondo eurasiatico: si trova infatti nel punto di incontro tra il Mar di Marmara e il Mar Nero, tagliata in due dallo Stretto del Bosforo. Appartiene quindi geograficamente e storicamente a due continenti, Europa e Asia.
La camera di Ceyda Torun, nata a Istanbul ma laureata in antropologia a Boston, si alterna ora sorvolando una città dai molti colori e dalle molte luci, ora camminando raso terra a fianco dei gatti, seguendo i loro tracciati e percorsi quotidiani, che si snodano lungo le strade, in riva al mare o in arrampicata su alberi e case.

 

 

Vengono registrate le impressioni delle persone, viene chiesto loro cosa li lega a questi felini, che rapporto hanno con loro. Un’artista spiega che secondo lei l’incontro che un umano ha con un gatto è il medesimo che si potrebbe avere con un alieno. Eppure, una relazione è possibile, anche se non si parla la stessa lingua. Ci si guarda negli occhi, e il contatto è stabilito.
“I gatti sanno che Dio esiste”, dice un marinaio. “I cani pensano che Dio sia l’uomo, invece i gatti sanno che non lo è, che è solo l’intermediario.”
La presenza di molte razze diverse di gatti in città viene spiegata con l’arrivo in passato di navi, dove i felini erano stati imbarcati per cacciare i topi. Riusciti per errore o distrazione umana a scendere sulla terraferma, i gatti vi si sono stabiliti e moltiplicati, spiegando la grande varietà di colorazioni nelle pellicce e nei tipi di pelo.

 

 

Istanbul non sarebbe Istanbul senza i suoi gatti. “Se non ci sono gatti in giro, le strade sembrano deserte”.
I gatti sono esseri sfuggenti per antonomasia, venerati fin dall’antichità egizia, ma c’è una certa differenza tra il gatto domestico e il gatto da strada. “In casa si dimenticano chi sono”, dice una delle voci del film. Che succeda lo stesso anche all’uomo?

Articolo di Manuela Ortis